Questa frase arriva dritta dalle profondità del tempo: io mi illudo di scrivere le mie parole, ma esse non sono mie, sono state inventate prima che io nascessi. Hanno subìto modificazioni nel corso dei secoli, hanno inglobato nuovi significati, e hanno cambiato faccia, ortografia, suono, diversi modi di articolarsi dentro la grammatica, nel sistema fonatorio, in bocca a chi le pronuncia: eppure continuano a percorrere il tempo, a scavalcare le generazioni. È questa la mia materia prima. Quando scrivo, io faccio i conti con il passato, anche se non ne sono consapevole. Scrivo parole che sono state inventate da chi ha vissuto prima di me, ascolto le parole dei morti, le rimetto in circolo, ancora una volta, dentro le mie frasi.
In sostanza, fra chi scriveva ai tempi di Sofocle e Platone e chi lo fa oggi non è cambiato molto. In arte invece è essenziale l'avvicendarsi delle tecniche: tempera, affresco, olio, fotografia, video cambiano la natura stessa dell'opera. Mi chiedo spesso che cosa farebbe oggi Caravaggio, se disponesse di una telecamera digitale. Allora vado in giro a guardare le opere del passato come se fossero arte contemporanea. So che non è corretto filologicamente, ma mi sembra un modo di liberare il passato da se stesso. Uno degli incontri più intensi l'ho avuto a Parma, sotto la cupola del Duomo. Sono salito sui ponteggi del restauro, a trentacinque metri d'altezza. Ho visto da vicino un dettaglio prodigioso: raffigurando l'interno della tomba della Madonna, Correggio ha dipinto le piantine interstiziali, quelle che crescono nelle fessure fra le pietre, sui muri, e che anche a noi capita di incontrare sugli orli fra marciapiedi e asfalto nelle città di oggi. Perché le ha dipinte?, mi sono domandato guardandole. Sapeva bene che non sarebbero risultate visibili da terra, a trentacinque metri di distanza. Ecco, la vegetazione interstiziale nell'affresco di Correggio per me è il simbolo di molte cose. Prima di tutto, il modo in cui la contemporaneità può guardare all'antico. Chi l'ha detto, infatti, che il soggetto di quell'immane affresco sia l'Assunzione al cielo della Vergine, e non piuttosto la sopravvivenza vegetale, che si insinua nelle fessure e continua a proliferare anche dentro un sepolcro? Mentre la teologia – o qualunque altra ideologia egemone – dispiega i suoi proclami enfatici, ci sono piccole creature senza redentori, che non hanno bisogno di risorgere né di essere assunte al cielo. Correggio era un artista concettuale?
Poi, mi viene da pensare che quelle erbette potrebbero ben rappresentare la tipica malinconia creativa di fronte ai secoli che ci hanno preceduti: che cosa ci resta da fare – sono in molti a pensarlo – se non far crescere piantine nelle commessure delle grandi opere del passato? È un atteggiamento che comprendo ma non approvo: mi annoiano le opere citazioniste, derivative, l'arte che fa arte su se stessa, in un'ossessione autistica, chiusa nel suo scafandro autoreferenziale. Da questo punto di vista, Correggio che integra il suo capolavoro (il suo, non quello degli antichi maestri) con questo dettaglio effimero, quasi irriverente, mi sembra un parodista tragico di se stesso, più eversivo, più serio e, in una parola, più contemporaneo di Duchamp che mette i baffi alla Gioconda.
Johann Heinrich Füssli disegnò L'artista sgomento di fronte alla grandezza delle rovine antiche, la celeberrima immagine di un uomo che con una mano si copre gli occhi (forse sta piangendo) e con l'altra accarezza il piede amputato del Colosso di Costantino. Anche per me il passato è, allo stesso tempo, un peso e una possibilità. È una presenza severa, che giudica la nostra pochezza, la nostra mancanza di ambizioni. Lo sappiamo bene noi italiani, che viviamo letteralmente immersi nel passato, in città dai centri storici fossilizzati: attingiamo dagli edifici antichi la vita in tutti i suoi aspetti (passeggiare, abitare, pregare). Così, noi italiani siamo un popolo che il passato non ha bisogno di riscoprirlo, studiarlo o fantasticarlo, giacché si trova immediatamente a viverlo. Perciò, a volte, accolgo con un certo sollievo i restauri di qualche facciata di palazzo o chiesa, e non mi lamento troppo se si protraggono oltre i tempi previsti: non solo perché mi restituiranno un monumento rinnovato, ma perché le impalcature copriranno per qualche tempo tutta quella bellezza, mi permetteranno di fare una pausa, di prendere un po' di respiro. Bellissimo, il Duomo di Milano ora che svetta nella sua nudità pietrosa; ma a suo modo bello anche durante il prolisso restauro degli anni scorsi, geometrizzato da teloni grigi. Per vivere, per inventare, per innovare, c'è bisogno anche di un po' di oblio che disintossichi da un eccesso di memoria, dalla presenza che si ostina a perdurare oltre la data di scadenza storica.
Non sono un artista visivo, non ho consigli da dare, però penso che il passato possa essere vissuto dagli artefici di oggi non solo come necessità, presenza oppressiva, ma anche come possibilità. Nonostante l'avvicendarsi delle tecniche che hanno segnato la storia dell'arte, certe forme continuano a permetterci una produttività, sono fonte di creazione, allo stesso modo delle parole, inventate molti secoli prima che noi nascessimo, e che rendono possibile la comunicazione, l'equivoco, la poesia. Senza fare esempi peregrini, voglio limitarmi a una forma primaria, elementare, la forma del quadro. Quando è stata inventata? Chi è che ha pensato che il mondo potesse essere ridotto a due dimensioni, sottilizzandolo, rendendolo portatile? Il quadro, l'inquadratura, è l'esempio principe di persistenza dell'antico, che sussiste sia mentre disegniamo con una matita, attrezzo d'altri tempi, sia mentre montiamo un video su computer o su un telefonino tuttofare di ultima generazione... In questo modo, con la forma-quadro, gli artisti del passato continuano a consegnare ai loro successori (noi) un'eredità, un campo di opportunità, addirittura un modo di sopportare l'oppressione del mondo, alleggerendolo, bidimensionalizzandolo.
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This sentence come directly out of the depths of time: I only deceive myself that I am writing my own words, but they are not really mine; they were invented before I was born. They have undergone modifications over the course of centuries, have embodied new meanings, and have taken on new looks, spellings, sounds, and different ways of being expressed in systems of grammar, and in phonatory systems, and in the mouths of different speakers, and yet they continue to flow through time, to leap from generation to generation. This is my raw material. In the act of writing, I am taking account of the past, even if I am not aware of it. I write words that have been invented by those who lived before me; I listen to the words of the dead; I bring them back into circulation, anew, in my own phrases.
In essence, things haven't changed much between those who wrote in the times of Sophocles and Plato and those who write today. In contrast, in art it is essential to address the issue of techniques: tempera, fresco, oils, photography, video all change the very nature of the work itself. I often ask myself what Caravaggio would have done if he had had one of today's digital video cameras. Then I go around looking at the works of the past as if they were contemporary art. I know that this is philologically incorrect, but it seems to me to be a way to liberate the past from itself. One of the most intense encounters I have ever had was in Parma, under the dome of the Duomo. I climbed up the scaffolding used for the restoration, thirty-five metres up. I came face to face with a prodigious detail: in depicting the interior of the tomb of the Madonna, Correggio had even painted the tiny plants that grow in the cracks between stones in walls, the ones we still see today in the cracks of sidewalks or in the asphalt of today's cities. Why did he paint them?, I wondered as I looked at them. He knew quite well that they couldn't be seen from the ground, thirty five metres away. Well, the plants in the cracks in the walls of Correggio's frescoes symbolise many things for me. First of all, one way in which contemporaneousness can look at the ancient. In fact, who said that the subject of that enormous fresco is the Assumption of the Virgin, and not the survival of the plants, that vegetation which insinuates itself into the cracks and continues to proliferate even in a sepulchre? While theology – or any other hegemonic ideology – unfurls its emphatic proclamations, there are tiny creatures without redeemers which have no need for either resurrection or assumption into heaven. Was Correggio a conceptual artist?
Then I come to think that those little shoots could aptly represent the typical creative melancholy when we think of all the centuries that have proceeded us: what else is left for us to do – many think this – if not cultivate tiny plants in the cracks of the great works of the past? This is an attitude that I understand but I don't approve of: I am rankled by works that are citationist, derivative, art that makes art of itself, in an autistic obsession, closed in its self-referential diving suit. From this point of view, Correggio, who integrated into his masterpiece (his masterpiece, not that of the ancient masters) a detail as ephemeral, almost irreverent, as this one, seems to me to be a tragic parody of himself, more subversive, more serious and, in a word, more contemporary than Duchamp putting a moustache on the Mona Lisa.
Johann Heinrich Füssli drew The artist despairing before the greatness of the ancient ruins, the celebrated image of a man who covers his eyes with one hand (perhaps he is crying) while the other caresses the amputated foot of the colossal statue of Constantine. For me as well the past is at once a burden and a possibility. It is a severe presence that judges our insufficiency, our lack of ambition. We Italians, who live literally immersed in the past, in cities whose historic centres are fossilised, know this well; all aspects of our lives (strolling, inhabiting, praying) are tinged by the ancient buildings around us. As a result, we Italians are a people who don't need to rediscover the past, to study it or fantasize about it, since we live it in an immediate way. This is why I sometimes greet the restoration of a palace or church with a certain relief, and am not too bothered if the work takes longer than expected; not only because they will be giving me back a monument that is renovated, but because the scaffolding will hide that beauty for a bit, and give me a little breather. So very beautiful, the Duomo of Milan standing proud in its stony nudity; but in its way it was beautiful even during the drawn out restoration of past years, when grey protective tarps rendered it geometric. In order to live, to invent, to innovate, we also need a little oblivion to detoxify us from an excess of memory, from the obstinate presence that lasts beyond the historic expiration date.
I am not a visual artist, and it is not for me to give advice, but I think that the past can be lived by today's artificers not only as an obligation, an oppressive presence, but also as a possibility. In spite of the coming and going of techniques that has marked the history of art, certain forms continue to permit a productivity; they are sources of creation in the same way that words are, invented centuries and centuries before we were born, and which make communication, equivocation, and poetry possible. Without giving unnecessarily obscure examples, I want to limit myself to a primary, elementary shape: the square. When was the square invented? Who was it who thought that the world could be reduced to two dimensions, flattened out, rendered portable? The most significant example of the persistence of the ancient is the square, and squaring: as valid when we draw with a pencil as it is when we put together a video on the computer or on the latest generation all-in-one cell phone. Thus, with the shape/square, the artists of the past continue to pass down to their heirs (us) a legacy, a field of opportunity, even a way of tolerating the oppressive burden of the world, lightening it, rendering it two dimensional.
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