Giulia Fraschi
Lo studioso del cervello si domanda se vi siano meccanismi nervosi alla base delle reazioni che si hanno davanti all’opera d’arte tali da spiegare l’universalità o, almeno, il largo consenso su ciò che è attraente e bello. Le tecnologie di imaging cerebrale ci mostrano che, davanti a un quadro che ci attrae, regioni specifiche del cervello si attivano e che quindi il bello ha un suo equivalente oggettivo a livello del sistema nervoso. E perché un segno è più significativo di un altro, come gli schizzi di poche linee da cui scaturiscono le magnifiche donne di Henri Matisse? È indubbio che il cervello possiede strutture più specializzate per certi segni o accumuli di essi piuttosto che per certi altri e le neuroscienze e la teoria della Gestalt ce lo assicurano ampiamente. La percezione è in parte un processo top-down, cioè basato su regole cerebrali innate o acquisite che guidano la nostra visione. E quando le entrate dal mondo esterno si armonizzano con le proprietà cerebrali, allora il circuito entra in risonanza, rispondendo ottimamente in termini di impulsi nervosi, di mediatori chimici e di sostanze ormonali, e anche le connessioni con i centri emotivi si attivano facendo nascere così l’esperienza che si ha dinanzi all’opera d’arte, sia essa opera del creatore della natura o del lavoro dell’uomo. La bellezza delle cose esiste nella mente di colui che le contempla; nell’arte e anche nell’esperienza dell’arte c’è il respiro della libertà cerebrale, del momento in cui il razionale cede all’emotivo, a quel pizzico di follia che fa l’uomo così differente dal computer, lo rende creativo e umanamente grande. L’artista diviene così un raffinato neurologo che sa trovare gli stimoli adeguati per eccitare il cervello e l’arte è una droga buona alla quale è fisiologico, e forse anche terapeutico, assuefarsi.